sabato 24 settembre 2011

Il centro commerciale delle commesse





Ieri pomeriggio mi trovavo in provincia di Bergamo, più precisamente ad Antegnate.
Passavo di lì per lavoro ed era giusto l'ora di mettere qualcosa sotto i denti.
A un certo punto ho visto spuntare sulla strada statale un mastodontico centro commerciale, una specie di enorme astronave di cemento armato piazzata a guardia del paese.
Gli giro intorno in macchina per qualche minuto e mi rendo conto che è davvero enorme, una specie di mostro che intimorisce solo a guardarlo.
Parcheggiare è un problema, nel senso che bisogna ricordarsi in quale scomparto lo si fa.
Ingresso "Brescia", zona blu, posto 622 e comunque sto bene attento a non scordarmi altri punti di riferimento.
L'interno del mostro è quasi sconvolgente.
Decine e decine di negozi, ciascuno dei quali dispone di migliaia di metri quadri.
Tutto bellissimo: giochi di luci, arredi splendidi e marchi prestigiosi.
Televisori al plasma dappertutto, filodiffusione e grande impatto visivo per tutto.
Scaffali pienissimi: abiti, scarpe, tecnologia e chi più ne ha più ne metta.

Mi accorgo subito di una cosa, però.
In tutto il centro commerciale non c'è nessuno.
Sì e no qualche decina di persone, venti al massimo in un posto che potrebbe contenerne senza problemi almeno un paio di migliaia.
Il mostro è popolato solo da commesse.
Due per ogni negozio, rigorosamente affaccendate nel nulla all'interno dei loro splendidi tailleur.
I bar vanno avanti solo grazie al personale dello stesso centro commerciale.
Si vede benissimo che chi ordina il caffè è la commessa di Zara...
Mi avventuro in un negozio di elettronica (2000 mq mi dicono...) e naturalmente sono l'unico.
Il commesso mi si attacca come una ventosa, non mi molla e mi propone un tv 3D.
Mi avvio dopo un quarto d'ora all'uscita e lo ringrazio.
Mi segue fino all'uscita del negozio, mi salvo solo per il fatto che non può seguirmi nel parcheggio.
Pazzesco, non c'è altro da dire.

Questa è la crisi, si dirà.
No ragazzi, la vedo diversamente.
La crisi non è un centro commerciale deserto.
La crisi è averlo costruito, averlo realizzato.
Avere creato l'idea di profitto dove non c'era, aver deciso che il businness non era vendere le merci e i prodotti ma il concetto stesso della costruzione del businness.
Queste cose ti fanno pensare che salteremo in aria.
Che le commesse non possono comprare i loro stessi vestiti.
Che i caffè sorseggiati nei bari costano 1 euro e tutte le volte che la mattina alle 8 apri tutto il baraccone solo la bolletta elettrica ti fa impallidire, figuriamoci tutto il resto.
Che non puoi pensare di vivere 52 settimane in un anno se fai il pienone solo la settimana di Natale e quelle dei saldi invernali ed estivi.

Il senso di disagio è stato grande come la sensazione di essere di fronte a qualcosa di profondamente sbagliato.
Stiamo andando nella direzione sbagliata, stiamo spaccando tutto.
Forse torneremo a comprare la frutta e la verdura nel negozietto del quartiere, a frequentare il bar sotto casa.
O forse ci arriveremo quando tutto questo non avrà più molto senso.
E poi ci metteremo comodi, seduti sulla rotonda di ingresso dei nostri centri commerciali con un sacchetto di semi di zucca tra le mani da mangiare.
Li guarderemo crollare, andare in malora. Deperire giorno dopo giorno.
E forse torneremo a parlare tra di noi.
A leggere e a vivere anche solo un po'.



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lunedì 19 settembre 2011

Push the button, please




A volte compiere una scelta non è quello che può sembrare.
Una scelta presuppone un'alternativa, un bivio al quale ci si interroga su quale strada proseguire.
A volte le scelte sono prive di queste caratteristiche, la loro inelluttabilità le rende solo a prima vista delle scelte mentre in realtà si è di fronte a un bottone da premere.
Direte voi: la scelta c'è anche in quella circostanza.
Premere o non premere il bottone?
Vero, ma quello che intendo io è un'altra cosa.

La decisione l'hai già presa.
Pensi che tutto sia già scritto e in effetti è proprio così.
Non c'è nulla da fare.
Hai esaminato ogni passaggio, hai valutato ogni situazione.
Tutto riconduce a un unico evento.
Il push the button.

Tu sei lì, sai che non c'è alternativa ma nonostante questo non ce la fai proprio a pigiare quel fottuto pulsante.
Poi ti guardi intorno.
Più ci pensi e più pensi che sia giusto.
Più ci pensi e più non non hai il coraggio di farlo.

Per farlo hai bisogno dell'ultimo scalino.
Di un evento traumatico che non c'è.
Abbandoni l'idea ed esci dalla porta con i coglioni girati.

Poi l'evento traumatico accade e tu lo benedici.
Corri nella stanza del bottone e finalmente fai quello che devi fare.
La finestra si apre.
I dubbi svaniscono e ti rendi conto che in fondo non hai fatto una scelta.
L'hai soltanto osteggiata senza motivo fino ad allora.
La scelta non è mai esistita.
L'unica cosa che esisteva era la tua incapacità nel capire la realtà.
Ma ora è passato.
E le cose passate assumono un'altro sapore mentre le cose future ti ringraziano per averle rese possibili.


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domenica 4 settembre 2011

La ricetta della felicità: morire di fame mentre tu bevi champagne




Mi sintonizzo su Radio24 e l'intervistato questa volta è un fantomatico economista di non so quale cazzo di università.
La domanda ovviamente è la solita: come si esce da questa situazione critica per l'economia? Quale la ricetta possibile per sanare una situazione divenuta davvero rilevante per tutti?
Il nostro bell'economista ha una ricetta tutta sua ragazzi, state a sentire.
Primo punto: abolizione dell'IRAP, che ovviamente è pagata dalle imprese. Così si rilancia la competitività, bisogna sostenere le imprese e che diamine! Tutti d'accordo no?
Punto secondo: innalzamento da subito dell'età pensionabile a 67 anni, sia uomini che donne... Tanto la vita media si è alzata no? Lavorate di più e pagate più contributi. Le pensioni che riscuoterete ve le godrete finchè crepate, che cazzo volete di più?
Punto terzo: un bell'innalzamento di due punti percentuali dell'IVA, dal 20 al 22% e siamo a posto! Facciamo decollare i prezzi al consumo, così le entrate aumentano e siamo a posto!

Il radio giornalista è molto perplesso.
"Professore..., ma così la manovra la paga il lavoratore dipendente, il pensionato, il dipendente pubblico, la gente che fa fatica..."
"E va beh... Siamo in un paese capitalista, da che mondo e mondo in questi paesi, e quindi anche in Italia, il capitale sfrutta il lavoro e quest'ultimo subisce. Si mangeranno meno bistecche e si pagherà qualche ticket sanitario in più, cosa volete che vi dica..."

Giuro che non mi sono inventato neppure una parola.
Vi prego di tornare indietro e rileggere attentamente una seconda volta tutto quanto.
Vi assicuro, è tutto vero.
Spero che qualcun altro abbia sentito quell'intervista e mi dica che sono pazzo e che mi sono inventato tutto.
Ma purtroppo non è così.
Allora io dico.
Pensate di risolvere davvero in questo modo la faccenda?
Oppure si tratta di uno scherzo di cattivo gusto?
Sappiate solo una cosa, soltanto una.
Che se pensate di farci pagare i vostri yacht, il vostro champagne e le vostre troie un'altra volta (l'ennesima) dovrete passare sui nostri cadaveri.
E probabilmente -alla fine- sarà più facile che saremo noi a passare sui vostri.


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